UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Archivi:
l'inganno digitale

Non c’è niente di più perituro dei dati e dei documenti nell’era dei computer: i file svaniscono col passare del tempo. Supporti e software diventano obsoleti e non si può più «leggere» ciò che era normale 10 anni fa. E se non teniamo «vive» le memorie digitali... rischiamo di perdere il passato!
9 Maggio 2011
«Salva». Quante volte abbiamo premuto sul computer l’icona col simbolo del floppy disk per memorizzare un lavoro appena concluso. E quante volte abbiamo pensato che, toccando quel tasto virtuale, avessimo messo al sicuro un documento, un’immagine, un suono o un filmato. Magari con l’assunto di averlo registrato per sempre. Perché l’era digitale ha fatto passare l’idea che il bit sia la cassaforte più sicura dentro cui racchiudere il passato. A eterna memoria, lascia intendere qualcuno. «Un autentico abbaglio – risponde il presidente dell’Associazione nazionale archivistica italiana (Anai), Marco Carassi, che dirige l’Archivio di Stato di Torino –. Gli archivi digitali sono fragili e la loro conservazione è delicata, persino costosa». Come a dire: va smontato il mito del codice binario che preserverà a tempo indeterminato la nostra storia. A ben guardare ce ne accorgiamo anche fra le mura di casa, quando il dvd in cui si trova la raccolta dei documenti di famiglia non è più leggibile oppure quando non riusciamo a scaricare le foto scattate con la macchina digitale. «Penso alla mia tesi in ingegneria discussa nel 1993 – racconta il direttore scientifico della fondazione 'Rinascimento digitale' di Firenze, Maurizio Lunghi, impegnato a livello europeo sul fronte della conservazione digitale –. Ho scovato qualche giorno fa il floppy su cui l’avevo salvata, ma non ho più un computer col lettore di dischetti. E poi nessuno mi assicura che i file siano ancora intatti». Ecco uno dei rischi che il digitale applicato al passato porta con sé: i rapidi cambiamenti tecnologici. «Ieri salvavo sui floppy – spiega Lunghi –; oggi utilizzo i cd-rom o i dvd che non avranno più di dieci anni di vita. Ma domani che cosa accadrà?». Accanto al supporto, c’è l’enigma sui software. «Fra un decennio sarò in grado di aprire un testo o una foto salvata in un formato che adesso va per la maggiore?», si domanda l’ingegnere toscano. E, tornando alla sua tesi, aggiunge: «Almeno la versione cartacea può ancora essere consultata, seppure sia ingiallita». Il che non significa mettere al bando lo zero e l’uno che formano la lingua del computer, ma avere ben chiare le debolezze quando si parla di eredità culturali. Vulnerabilità che crescono se il discorso si allarga agli archivi di ampie dimensioni. Il primo a non prendere sottogamba le pecche del bit è stato il Congresso degli Stati Uniti che già nel 2000 ha destinato cento milioni di dollari alla sua Biblioteca centrale. Obiettivo: «preservare il nostro patrimonio digitale». Così è stato chiamato il progetto che da undici anni si propone di creare un’infrastruttura capace di resistere all’usura degli anni. L’assunto è che non si può fare da soli.

E la Library of Congress ha riunito intorno a sé 185 partner di 44 Stati americani e di 25 nazioni per mettere a punto un’«alleanza» (questo il vocabolo usato nel report 2010) che argini i pericoli telematici. Il progetto li elenca: oltre alle incognite tecnologiche, ci sono quelle giuridiche (in particolare la tutela del diritto d’autore), quelle sui contenuti (come le difficoltà a ritrovare il materiale digitale mal catalogato) e quelle organizzative (le risorse insufficienti o gli archivisti non preparati). «La conservazione storica – spiega Carassi – si salva solo se si interviene già nella fase iniziale di formazione dell’archivio. Non è possibile ordinare a posteriori un archivio digitale nato male». Attualmente siamo nella fase dei «magazzini» ibridi in cui convivono l’analogico e il digitale. È il caso dell’Italia.
«Mentre i documenti sui supporti tradizionali come la carta possono sfidare i secoli se correttamente conservati – afferma il presidente dell’Anai – gli archivi digitali pongono problemi nuovi. Di fronte alla rapidità con cui gli apparecchi elettronici e i programmi divengono obsoleti, la soluzione non è quella di creare musei di vecchie apparecchiature, ma di effettuare periodiche migrazioni in nuovi ambienti elettronici».
Non semplici backup, ma vere e proprie operazioni di trasferimento in cui accertarsi che non si perdano né i dati né il contesto di produzione e uso, ossia i metadati che ricostruiscono la storia dei file e ne permettono la ricerca. In fondo il modello è quello che ci offre il passato. Se nella Roma degli imperatori o nel Medioevo, arricchito dai carismi delle grandi famiglie religiose, la memoria veniva tramandata copiando pergamene o codici, oggi gli «amanuensi» del terzo millennio hanno il volto degli esperti di pc che sono chiamati a riscrivere le collezioni digitali travasandone i contenuti. «Le memorie digitali vanno tenute vive», sottolinea il direttore di Rinascimento digitale . Alla fondazione fiorentina è legato uno dei progetti che ha visto l’Europa affrontare i dilemmi degli archivi hi-tech. Per tre anni, dal 2006 al 2009, la Commissione europea ha finanziato il percorso di 'Digital Preservation Europe' che ha coinvolto diverse università e anche il Ministero per i beni culturali italiano. Fra i frutti c’è un decalogo di «buone pratiche» da seguire. «È bene affidarsi a standard informatici aperti – spiega Lunghi illustrando qualche consiglio –. Inoltre vanno impiegati sistemi confrontabili.
Ed è opportuno evitare che ci sia un unico amministratore del sistema». Sul sito che ripercorre le tappe di questa esperienza è stato messo a disposizione anche un software, «Drambora», che aiuta a capire le lacune di un deposito informatico e a trovare le via d’uscita.
Certo, i benefici del digitale applicato agli archivi si toccano con mano. Gli spazi si riducono a vista d’occhio: bastano pochi dischi rigidi o supporti magnetici per custodire milioni di pagine o immagini. E poi c’è la consultazione in tempo reale attraverso Internet. «Negli archivi storici italiani – afferma Carassi – da una ventina d’anni si sono effettuate campagne selettive di digitalizzazione, ossia di riproduzione digitale dei documenti. Di sicuro non è immaginabile di portare su computer i contenuti di centinaia di chilometri lineari di scaffali: il solo Archivio di Stato di Torino ne ha 81. Caso mai lo scopo è migliorare l’accessibilità per gli utenti e tutelare gli originali la cui manipolazione è comunque dannosa». Ma la rivoluzione informatica ha i suoi oneri. «Le digitalizzazioni, all’inizio costose e poi meno dispendiose – chiarisce Carassi –, rimangono molto impegnative per i magri bilanci delle istituzioni culturali. Infatti la conservazione ottimale comporta spese continue che gravano sui bilanci in maniera non ancora prevedibile». Da qui la scelta di costituire consorzi per affrontare la sfida italiana almeno a livello regionale. E, anche se il prodotto digitale danneggiato potrà essere restaurato con complessi algoritmi, il principio di cui far tesoro è uno: la tecnologia da sola non salva la memoria.