UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Digiuno tecnologico e profumo di limoni

Prendendo spunto dall'incontro di alcune centinaia di genitori, a Milano, con padre Jonah Linch (autore del best seller "Il profumo dei limoni") sulle pagine di Avvenire Giuseppe Romano rilancia le riflessioni del religioso sul nostro rapporto con i media e sul valore che può avere, talvolta, il "digiuno tecnologico".
12 Marzo 2013
Il rapporto fra l’uomo e la tecnologia non è questione di tecnologia, bensì di priorità esistenziali. È questa la tesi che ha motivato Jonah Lynch a scrivere un libro come Il profumo dei limoni ( Tecnologia e rapporti umani nell’era di Facebook), due edizioni e oltre diecimila copie vendute con Lindau: ed è una tesi robustamente sostenuta dalla sua esperienza personale.
Finché in rete non sarà possibile avvertire il profumo dei limoni, sostiene questo prete trentenne di origine americana (è nato in Oregon, ha studiato in Canada, «ha svoltato» a Roma e oggi fa parte della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo), sarà importante ripetere che la realtà è più ampia e consistente di un tablet o di un pc. Finché la famiglia sarà il primo dei luoghi educativi, non potremo delegare ai media le nostre attenzioni e le nostre conversazioni. Il profumo dei limoni, che lui percepì in un qualsiasi giorno invernale in un giardino romano, resta un emblema di immedesimazione con la ricchezza del mondo e garantisce la nostra capacità di essere noi stessi, assaporando la realtà fino in fondo.
Nei giorni scorsi a Milano, alla scuola Monforte del Faes, trecento genitori si sono riuniti ad ascoltare le riflessioni di father Lynch su questi temi e a interrogarlo con un fuoco di fila di domande in cui traspariva una concreta preoccupazione per la difficoltà di indicare la rotta nei mari in tempesta della rete. Hanno ricevuto la sorpresa che non si aspettavano: anziché dissertazioni sul perché occorre governare gli strumenti piuttosto che farsene guidare, si sono trovati a confrontarsi sul peso che ciascuno di noi dà a ciò che deve guidarne la vita.
Per che cosa viviamo? La risposta di Lynch è lineare, ancorché non semplice. Per un ragazzo promettente innamorarsi di Dio e farsi prete significa puntare tutto sulla carta della preghiera. Che senso ha, allora, sprecare il meglio di sé in attività distraenti? «Ogni tecnologia porta con sé un mutamento del rapporto con il mondo, una facilitazione di certi aspetti di quel rapporto e una complicazione di altri. Ciò è precisamente non neutrale, dal momento che tutto dipende da quali aspetti della vita sono facilitati e quali ostacolati, come il profumo dei limoni». Lynch esamina questa contraddizione da due punti di vista. In primo luogo, le neuroscienze mostrano come il cervello umano sia così malleabile da costruire i propri vincoli neuronali a seconda delle attività preferenziali della persona. Questo significa non soltanto che non esistono capacità innate, ma anche che un’azione prevalente condiziona o addirittura impedisce le altre. Se non ci si esercita nella lettura e nella riflessione, concentrarsi risulta difficile. Se, per giunta, si dà spazio totale alle procedure basate su link e associazioni immediate, si fa quasi impossibile concentrare l’attenzione in quel modo «lento» che è caratteristico di chi riflette.
Quindi, in secondo e più importante luogo, sarebbe un’assurda contraddizione convenire che la preghiera e la meditazione sono il fulcro della propria vita, e precluderseli sprecando la propria capacità appresso alle suggestioni di strumenti straordinari, sì, ma dispersivi. «Se mi preoccupa una frase come 'stasera ci vediamo su Facebook', o il fatto che si chatti nella propria cameretta più volentieri che uscendo a prendere una birra, è perché così si cambia radicalmente il significato dello stare insieme. Questo tipo di rapporto vicario, solitario, sta ai rapporti umani diretti come la pornografia sta al rapporto coniugale». Può sembrare un ragionamento radicale. Lynch è, appunto, radicale: fatevi una scala di valori, dice, perché ne dipende la vostra felicità. Questo discorso potrebbe prescindere dalla fede in Dio (che pure ne è parte primaria), perché chi si mette incondizionatamente nelle mani della tecnologia perde la capacità di allacciare relazioni non fugaci. «Sarà ormai ovvio che l’ideale in cui io credo è quello proposto dalla Chiesa cattolica. Ma il mio non è un discorso di parte. Anche chi non crede in Dio riconosce una scala di priorità dei valori; certi rapporti, attività, libri sono molto importanti, altri meno. Non è essenziale per il mio discorso che condividiamo la stessa scala di valori».
E, d’altra parte, se i cristiani vogliono risolvere l’ormai annoso problema del «come evangelizzare la rete», cambino prospettiva: «Mi sembra che il problema fondamentale per i cattolici non sia quello di conquistare gli spazi della rete a Cristo, ma piuttosto di vivere con Cristo nella Chiesa e nei sacramenti. Chi fa così 'cristifica' poi ogni ambiente in cui vive, compresa la rete».
Alle famiglie Lynch prospetta un esperimento impegnativo, quello del «digiuno tecnologico». Lui, nel seminario romano di cui è rettore, lo adotta ormai abitualmente: un anno intero senza cellulare e pc portatile ai neoseminaristi, affinché imparino quanto la mente e l’anima siano prioritarie su qualsiasi strumento. A casa, in famiglia, sarebbe sufficiente decidere di spegnere il telefono mentre si cena, o privilegiare momenti importanti (e coinvolgenti) dello stare insieme rispetto al guardare silenziosi – in un «insieme» che suona affettivamente impoverito – le trasmissioni della tv o le navigazioni interattive nella rete digitale.
Poi, evviva gli strumenti, che restano importanti. Ma non insostituibili, mai, perché l’unica realtà insostituibile è «tutta» la realtà.
 
Giuseppe Romano