UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il dolore di un padre,
la gogna mediatica di Facebook

Il fatto è sconcertante. Brutto, ma non imprevedibile, purtroppo. Un uomo è messo alla gogna su Facebook. Una gogna mediatica, che presenta nome e cognome con allegata la foto dell’uomo, definendolo «Il medico della morte»...
14 Giugno 2011
Il fatto è sconcertante. Brutto, ma non imprevedibile, purtroppo. Un uomo è messo alla gogna su Facebook. Una gogna mediatica, che presenta nome e cognome con allegata la foto dell’uomo, definendolo «Il medico della morte». «Assassino», «Vergognati», sono i più moderati tra gli insulti, le parolacce, le maledizioni che giungono a colpire l’uomo condannato dalla gogna pubblica di Facebook mentre ancora il processo che lo riguarda è in corso. Autore della vendetta, brutale, che sostituisce la giustizia, il padre di un bambino di tre mesi deceduto due anni fa in un ospedale di Pescara, durante un intervento giudicato dai medici «di routine». Nei giorni scorsi il padre del bambino ha pubblicato sulla sua pagina di Facebook la foto di quello che ritiene l’assassino di suo figlio. Il procedimento giudiziario è complicato: dopo due anni di perizie e controperizie il giudice deve ancora stabilire se i medici coinvolti dovranno essere processati o meno per la morte del bambino.

La disperazione di quel padre è tutta comprensibile, il suo dolore da rispettare, anche ai confini più estremi di ciò a cui può condurre l’angoscia insopportabile della perdita di un figlio appena nato. In un lutto, peraltro, che non si risolve ancora, con la perversa complicità dei tempi che la nostra giustizia continua a imporre. Il giorno successivo alla pubblicazione della foto su Facebook, però, erano già pervenuti una cinquantina di messaggi minacciosi o insultanti da parte di utenti. Sappiamo che in Italia la situazione ospedaliera è complessa, spesso grave, troppi sono i casi di decessi non giustificati dalla difficoltà dell’intervento, ma da pigrizia, lentezza, inefficienza, approssimazione. Il medico che non accetta il codice etico del medico deve pagare. Come chiunque non compia il suo dovere; e forse un po’ di più, perché ha scelto una professione esplicitamente in difesa della vita altrui. Un impiegato del catasto che ruba è meno colpevole, moralmente, di un carabiniere che ruba. Un capoufficio distratto o indolente è meno colpevole di un medico disattento. Sto rasentando l’ovvietà.
Perché è evidente che tutto regge solo quando si dimostri che il medico ha mancato. E in quale misura lo abbia fatto. Con un’indagine in corso la demonizzazione di quell’uomo, pur nella drammaticità di una vicenda umana straziante, dispiace sia formalmente lecita. Un uomo è messo alla berlina prima che la giustizia appuri se ha colpe o responsabilità. La risposta è immediata, popolare nel senso peggiore del termine, come vuole la cultura mediatica, la cultura di Facebook (e dei talk show, dei gossip, delle coppie che scoppiano in diretta, etc. etc.), che troppo spesso sostituisce il tribunale, così come ha sostituito da tempo la coscienza individuale.
Infatti la notizia postata su Facebook assume sin dall’inizio una incontestabilità stellare: è indubbia, luminosa, non sottoposta al rovello, al dubbio, come un astro nel suo assoluto splendore. Si cita Facebook come si cita la certezza universale: come un tempo si affermava «Si dice», «Lo dicono alla radio», Facebook, creando e diffondendo una falsa sincerità confusa con l’immediatezza acritica, favorisce lo spirito acritico dei suoi utenti. E in certi casi giunge a episodi inquietanti, giudizio sommario, spostando in secondo piano il lavoro dei magistrati che indagano, dei periti che analizzano. Dimenticando in ogni caso la persona, perché anche quel medico è una persona che vive con altre persone, condannata a priori in modo beffardo e sprezzante, sbattendo la sua faccia in pagina. Forse quel padre addolorato, senza quello strumento, non avrebbe cercato un exploit così plateale, sarebbe rimasto entro quei limiti che forse Facebook è nato per ignorare. O chissà.