Due diverse prospettive, laica e religiosa, ma un unico sguardo sul mondo del lavoro: il Premio Bresson ricorda i disoccupati, i precari e gli ultimi. Con serenità, nell’occasione, si stringono la mano il regista inglese Ken Loach e il patriarca di Venezia monsignor Francesco Moraglia, giunto per la prima volta alla Mostra del Cinema. Entrambi ricordano di essere sempre stati attenti al mondo delle povertà silenziose e delle lotte operaie, dei senza tetto e degli ultimi della società, degli immigrati accolti o respinti, l’uno come vescovo della Chiesa (a La Spezia prima e ora nell’operoso Veneto), l’altro come regista di cinema. E proprio alla classe operaia, negli anni della crisi mondiale sempre più lontana dal Paradiso, con la Parola del Vangelo o con le immagini sullo schermo, hanno dato voce, conforto, visibilità, accoglienza, un ruolo. «Per Ken Loach il cinema può ancora cambiare il mondo – ha detto mons. Dario E. Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo che organizza la premiazione – può entrare in fabbrica e nelle periferie, nella marginalità e nella disperazione, per uscirne più forte e consapevole».
«Il cinema è un piccolo strumento nel grande mondo – gli risponde pacato l’artista, anche se nelle sue storie, quelle che scrive da cinquanta anni, è davvero un guerriero indomabile –. Un film va e viene, da solo non può fare nulla, noi registi possiamo soltanto sollevare delle domande, a svilupparle ci devono pensare la società e la politica. Io posso solo mostrare solidarietà con le persone che lottano per un posto di lavoro e per la loro sicurezza, con i colleghi cineasti che lottano, come in Iran, per la libertà di espressione, per i popoli che combattono contro i razzismi e le oppressioni » aggiunge criticando anche lo stato d’Israele «ma non gli israeliani ». «Sono stato, in fondo, un privilegiato, perché ho potuto esprimere liberamente la mia opinione proprio attraverso il mezzo che preferisco, il cinema. Mantenendo quello che io ritengo fondamentale: un profilo umile». Quello che chiede anche il Patriarca a tutti gli operatori di buona volontà, registi compresi. «Considero una lezione oltremodo opportuna – precisa il vescovo – quella che ci propone una cinematografia che, in modo costante, si adopera a illuminare umilmente la 'zona oscura' dell’umanità, come fa Ken Loach, al quale va tutta la mia gratitudine. Da sempre ha fatto entrare nel suo impegno di regista il riscatto degli 'ultimi', in particolare del lavoratori sfruttati, dei precari e degli immigrati alla ricerca di un lavoro e di un riscatto sociale». Premiarlo al Lido è un momento speciale. E Venezia è la città del dialogo, della cultura e della Mostra del Cinema. Ma non solo. «Certo il cinema – precisa Moraglia – è certamente oggi un veicolo maggiore per rinsaldare il dialogo tra le culture e per la cultura del dialogo. Quindi penso che la Mostra sia pienamente inserita in questo dna veneziano. Però, Venezia è anche fatta di Porto Marghera, di Mestre, di tante sofferenze per situazioni lavorative in difficoltà, una Venezia dai volti plurimi». Quei volti che Ken Loach non ha mai nascosto e dimenticato. «Sotto il suo sguardo attento, pensieroso e partecipe, volti e vicende umane vengono riscritte e, ai nostri occhi, assumono una nuova dignità non legata al successo e al potere ma al recupero dell’uomo e della sua dignità fondamentale. Con la possibilità di una redenzione».
Un invito alla collaborazione per raggiungere una meta comune: migliorare l’uomo, crescere in umanità. «Non necessariamente – dice schietto Loach – questa collaborazione tra cinema e Chiesa può instaurarsi. La Chiesa, a mio avviso, nel corso della storia ha dimostrato di avere molte facce: alcune volte è stata al fianco dei poveri e degli oppressi, ma altre volte ha assecondato i poteri. Oggi, però, è il momento di pensare a quello che abbiamo in comune, a ciò che possiamo condividere». Soluzioni? «I politici che tipo di risposte possono dare? Soltanto questo conta: pianificare l’economia, difendere i diritti umani, proteggere l’ambiente ». Siamo entrati, forse, nel tempo della speranza. «Per me conta solo quella che si basa sul senso della realtà, sulla consapevolezza del modo col quale sia per noi davvero possibile cambiare le cose. La speranza che galleggia in un vacuum non è speranza».