UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Malattia mentale: le parole per dirla

A trent'anni dalla legge Basaglia arriva la "Carta di Trieste": Ordine dei giornalisti e Federazione della stampa hanno raccolto l’invito dell’Oms a sostenere la lotta ai pregiudizi sulla malattia mentale. Tra le raccomandazioni l’uso di vocaboli appropriati evitando ogni tipo di allusione.
24 Giugno 2010
«Impazzire si può, perché guarire si può», si sostiene al forum sulla sofferenza mentale in corso a Trieste. Ma basta­no poche parole usate male per far ri­piombare pazienti e familiari nella disperazione. È proprio necessario, ad esempio, scrivere o parlare di “donna depressa”, di “schizofrenico”, di “psicopatico”, di 'malati di men­te', di “matti“ e finanche di “mostri”? Perché, invece, non essere più sobri nella scrittura e nel linguaggio, par­lando di “donna che soffre di depres­sione”, di “uomo affetto da schizofre­nia”, di persona con “disturbi psico­logici” o “psichiatrici”? Ecco l’obiet­tivo della “Carta di Trieste”, varata ie­ri, al fine di «educare» gli operatori dell’informazione a non usare a spro­posito o abusare di termini specifici di patologie mentali. Come spesso accade con l’aggettivo “schizofreni­co”, riferito perfino a comportamen­ti politici e sociali. Quando si sa che chi ha parenti in condizione di disa­gio psichico sobbalza al solo sentire un politico pronunciare quella paro­la. La 'Carta', sul modello di quella di Treviso per i minori, arriva a trent’an­ni dal varo della legge 180 del triesti­no Franco Basaglia e porta la firma dell’Ordine dei giornalisti e della Fe­derazione della stampa, che hanno accolto l’invito dell’Oms a sostenere la lotta ai pregiudizi. Ed ecco la pri­ma raccomandazione del protocollo (che verrà ulteriormente perfeziona­to): «Usare termini appropriati, non lesivi della dignità umana, o stigma­tizzanti, o pregiudizievoli, per defi­nire sia il cittadino con disturbo men­tale qualora oggetto di cronaca, sia il disturbo di cui è affetto, sia il com­portamento che gli si attribuisce, on­de non alimentare il già forte carico di tensione e preoccupazione che il disturbo mentale comporta, o in­durre forme di identificazione, sen­timenti o reazioni che potrebbero ri­sultare destabilizzanti o dannosi per la persona, i suoi familiari e la co­munità nell’insieme». E ancora: «Usare termini giuridici pertinenti, non approssimativi o al­lusivi a luoghi comuni di sorta nel ca­so il cittadino con disturbo mentale si fosse reso autore di un reato di qualsivoglia entità, tenendo presen­te che è un cittadino come gli altri, uguale di fronte alla legge». Ma anche «non interpretare il fatto in un’ottica pietistica, decolpevolizzando il citta­dino per il solo motivo che soffre di un disturbo mentale né, al contrario, attribuire le cause e/o l’eventuale ef­feratezza del reato al disturbo men­tale ». E, in ogni caso, è meglio «con­siderare sempre che il cittadino con disturbo mentale è un potenziale in­terlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, tenendo presente che può non conoscere le dinamiche me­diatiche e non essere quindi in gra­do di valutare tutte le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media». La 'Carta', inoltre, mentre invita a «promuovere la diffusione di storie di guarigione e/o di esempi di espe­rienze positive improntate alla spe­ranza e alla possibilità di guarigione», sollecita una particolare attenzione quando si tratta di raccontare un sui­cidio. «Benché in oltre il 75% dei ca­si il suicidio non sia connesso al di­sturbo mentale, è luogo comune molto frequente associare a que­st’ultimo le sue cause. In questo mo­do non solo si fornisce un’informa­zione non corretta, ma si rischia di indurre comportamenti emulativi nelle persone più fragili».