Darsi allo sport, faticare, allenarsi... per imparare (anche) a non vincere. Perché pure le sconfitte sono una medaglia da portare sul petto, e al momento giusto ci serviranno molto più di un podio. A garantirlo sabato 5 maggio nel Teatro Piermarini di Matelica erano pezzi da novanta che di podii ne hanno calcati tanti, eppure dello sport parlano non come di un trampolino per successo e ricchezza, ma come di una «Palestra di vita», com’era intitolata l’ultima giornata del Convegno nazionale dei Settimanali cattolici italiani.
«A 17 anni ero nuotatore e pentatleta fortissimo. Mi convocarono al primo grande evento internazionale in Austria, quando un incidente a cavallo mi legò definitivamente a questa carrozzina...». Luca Pancalli, vice presidente del Coni e presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico), la sconfitta l’ha conosciuta presto e nel modo più crudele, ma non la rinnega: è l’esempio vivente che non importa quante volte si cade nella vita, quel che conta è quante volte ci si rialza, e lui ha continuato a gareggiare, portandosi a casa dai Giochi paralimpici 8 ori, 6 argenti e 1 bronzo.
«Grazie a questo convegno – ha detto – possiamo riflettere sulla vera dimensione sportiva, che invece in Italia è relegata a un agonismo esasperato. Lo sport non serve soltanto a trionfare ma a crescere, non siamo tutti costretti a essere forti e perfetti, e il vinto non è un fallito». Il valore della sconfitta gli atleti disabili lo imparano sulla propria pelle, ad esempio quando un cavallo ti disarciona e spezza il midollo che ti teneva in piedi: «In un solo secondo tutta la tua prospettiva cambia». Proprio lo sport, dunque, rese tetraplegico Pancalli nel lontano 1981, eppure lui ne testimonia il ruolo di «straordinario riabilitatore sociale», sebbene in Italia, in fondo, non ci si creda affatto: «Al di là delle passerelle dei politici sul carro dei vincitori durante le grandi spedizioni azzurre, non ho mai visto dare dignità all’educazione fisica nelle scuole, come invece all’estero, né concedere sgravi fiscali alle famiglie che avviano i figli a una disciplina ». Eppure che sia «una scuola di democrazia e di diritto è evidente». E proprio dal «diritto», ovvero dal rispetto delle norme, senza le quali non c’è gioco (sul campo così come nella vita), è partito Marco Tarquinio, direttore di «Avvenire», ricordando che la vera sovversione in fondo è stare alle regole, «altrimenti c’è solo la legge del più forte, del più rapido a cogliere l’occasione, ad accumulare disonestamente più ricchezze o più potere. Perché si può vincere anche molto male». Come si può perdere molto bene. Uno sport così inteso rovescia gli stereotipi: «È il luogo del misurarsi, non come verbo autoreferenziale – ha detto Tarquinio – bensì relazionale; mi misuro solo confrontandomi. È il luogo del passare, non come andare oltre ma come passare il testimone dentro un progetto comune. Il luogo del concorrere: non la spietata concorrenza per sopravanzare, bensì il correre insieme. E dell’assistere, non nell’accezione pietistica, ma di fare un assist perché un altro vada in porta per tutta la squadra». La sfida per i media – «Avvenire» e i 189 settimanali cattolici della Fisc in testa – è allora raccontare volti e segni, storie di vita vera, «e non trasformare in eroi figure che vincono ma alle regole non stanno», cattivi esempi che osannare è atto colpevole e inganno nei confronti della società. «È vero, noi dobbiamo dare l’esempio più di altri», ha confermato Lorenzo Minotti, dirigente sportivo del Cesena, ex calciatore della nazionale, 201 presenze in serie A e nel suo carnet un gol che nel 1993 a Wembley gli permise di alzare al cielo la Coppa delle coppe. «Da Dio ho ricevuto il grande dono che la mia passione di bambino è diventata davvero il mio mestiere. Dall’esordio nel Cesena, in soli 4 anni mi sono trovato ricco e famoso, e ho sempre sentito il bisogno di restituire parte della mia fortuna. Ne ho avuto la possibilità quando mi hanno chiesto di diventare testimonial dell’Admo per donare il midollo: è stato questo l’allenamento più importante, perché quando la vita prima o poi presenterà anche a noi i suoi conti dolorosi, ci troverà più pronti».
Il triplice fischio finale è toccato a don Ivan Maffeis, vice direttore dell’Ufficio nazionale Comunicazioni sociali della Cei, cha ha sottolineato il gioco di squadra condotto oggi in Italia «dai settimanali diocesani che ogni settimana raggiungono milioni di lettori, ad Avvenire, Tv2000 e Radio InBlu, il Sir e l’Ucsi. Sono loro la maestranza qualificata capace di valorizzare talenti, formare persone motivate, preparare leader che puntino al bene comune ».