UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Mons. Pompili per il 70° anniversario di San Francesco Patrono d'Italia

Alle 11.00 di venerdì 2 ottobre Mons. Domenico Pompili, Sottosegretario della CEI e Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, ha preso parte, nella Sala della Lupa del Palazzo di Montecitorio, alla celebrazione del settantesimo anniversario della proclamazione di San Francesco d’Assisi a Patrono d’Italia, alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini. Ecco il testo del suo intervento.
2 Ottobre 2009

1.
In tutta Europa è stato da poco ricordato il 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale, il 29 agosto 1939: poche settimane prima, il 18 giugno, Pio XII aveva proclamato san Francesco (con Caterina da Siena) patrono principale d’Italia, quasi anche a volere trasmettere, nella china ormai sciaguratamente totalitaria che avevano preso gli eventi politici, un preciso, inequivocabile messaggio sull’identità nazionale, sulle sue radici, sui suoi frutti, sul suo futuro.
La bolla Licet Commissa, se riletta in controluce, ci permette di cogliere il giudizio storico sul tormentato presente e nello stesso tempo quel rapporto vivo e antico di san Francesco con l’Italia.
Valga ad illustrane alcuni tratti essenziali rileggere per un istante il gran libro delle Fonti Francescane, tutto percorso da quella gioiosa dinamica dell’evangelizzazione che di Francesco è, da secoli, la straordinaria cifra spirituale, culturale, anzi perfino sociale e addirittura economica, in una parola, latu sensu, la cifra politica.
A cominciare dalla cronaca di Ruggero di Wendover  e Matteo Paris che, subito dopo l’approvazione della regola, sottolineano come :
“da allora la fama del nome di Francesco incominciò a diffondersi per tutte le regioni d’Italia”. Una fama concretamente legata alla presenza sua e dei suoi frati, da Bressanone a Trapani, a  Ragusa.”Per tutte le contrade d‘Italia” puntualizzano i monaci inglesi.
E’ significativo il ripetuto uso di questo termine, poco corrente ancora nel Medioevo: proprio in relazione a Francesco, all’irradiazione della sua presenza, comincia ad avere sostanza quella che pure per lunghi secoli resterà soltanto un’espressione geografica, viva però di una corposissima identità culturale, spirituale e soprattutto religiosa. A questa Italia – come è noto - Francesco darà anche le primissime, eccelse prove linguistiche. “Il Signore - come si legge nella Leggenda perugina - non ha fatto a tutte le nazioni un dono simile”. Perché non è una “fama” vuota, quella di Francesco, ma incide realmente sulle diverse contrade di questa Italia, così come aveva fatto in Assisi, nel momento della sua conversione.

2.
Dell’Italia - lo hanno notato tutti gli osservatori ed i viaggiatori nel corso dei secoli e non faremmo fatica a scorgerlo anche nei nostri giorni concitati - lo spirito di fazione, di partito fine a se stesso, la rissosità campanilistica, un senso di guerra civile permanente, è il limite strutturale. Le ricche città dell’Italia tardo-medioevale, così come dei secoli successivi, sono divise al proprio interno e questo spirito di fazione tutte le consegna all’irrilevanza, rinchiude l’Italia in se stessa, nelle sue divisioni, limita gli orizzonti, annebbia l’idea di bene comune. Francesco sa portare la pace, civilizzando le fazioni, trasformando la rissa in competizione virtuosa, come si ricava dalla Compilatio Assisiensis dove si legge il seguente episodio:
“Quando arrivarono ad Arezzo, l’intera città era in preda allo sconvolgimento e alla guerra civile, giorno e notte, a causa di due fazioni che si odiavano a vicenda da lungo tempo. Vedendo questo, il beato Francesco, e udendo tanto strepito e clamore di giorno e di notte mentre alloggiava nell’ospedale di un borgo fuori città, gli parve di vedere che i demoni esultassero di quanto accadeva e incitassero tutti gli abitanti a distruggere la loro città con il fuoco e altri mezzi pericolosi” (Fonti Francescane, 108).
Ad Arezzo, anche se per il tramite del suo frate Silvestro, Francesco riuscirà a ricomporre una tensione che non si acquietava. Ciò che colpisce è non solo la conversione individuale, ma la conversione collettiva verso sentieri di pace, diremmo oggi verso una virtuosa convergenza, pure nella distinzione, delle fazioni, dei partiti, verso il bene comune. Francesco e i suoi frati si spendono senza nulla pretendere in cambio, parlando con libertà le parole del Vangelo.
Non sarebbe spiritualmente rispettoso né filologicamente corretto attribuire al Santo di Assisi o pretendere di estrapolare dalle più certe Fonti Francescane una teoria sociale. Non è possibile tacere però la copiosa letteratura che accerta come sin dai primissimi decenni la predicazione e l’esempio di Francesco abbiano generato una profonda innovazione nella riflessione credente e nella stessa riflessione teologica, dedicate alla polis. La teoria politica medievale (soprattutto in ambito britannico), la teoria economica e la stessa teoria e pratica della finanza (soprattutto in ambito italiano), il modo di intendere la ricerca scientifica (soprattutto empirica) furono letteralmente investite dalla ventata di libertà e di fede raccolta e suscitata da San Francesco nelle città europee che andavano decollando. Senza poterlo adeguatamente documentare in queste sede, resta vero che un tratto unificante dell’influenza francescana sulla prassi sarà proprio la capacità di comporre armonicamente insieme coscienza e competizione, inverando il significato di questa nel senso di “cercare insieme” e mostrando così nei fatti che la competizione mantiene una sua positiva funzione solo e se non oltrepassa un certo limite.  Col tempo per altro il francescanesimo avrebbe insegnato nell’invenzione tutta italiana della banca o nella britannica limitazione del potere del sovrano che sono sempre gli umili a soffrire nelle società chiuse e ad avvantaggiarsi nella dinamicità delle società aperte.

3.
Concludo con un’ultima suggestione, tratta  questa volta da Tommaso da Spalato, il quale testimonia – era il giorno dell’Assunta del 1222 a Bologna - lo stile di Francesco, per le contrade dell’Italia. Egli scrive: “Non aveva lo stile di uno che predicasse, ma di conversazione”. Parlava, interveniva cioè non dall’esterno o dall’altro, ma ponendosi nel cuore stesso della comunità. Tutta la città – riporta il cronista - era confluita ad ascoltare un uomo piccolo, coll’abito dimesso, la faccia senza bellezza. “In realtà tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace”, con frutti abbondanti ed immediati.
Tale fu e resta il segreto di San Francesco, cioè Francesco stesso, capace di spendersi di persona. Di qui l’efficacia della sua predicazione – conversazione, che cambia il cuore degli uomini e porta alla conversione della città. La pace infatti non è un’ideologia né tantomeno una strategia: è più semplicemente specchio della verità, la realtà cioè di una vita buona, che si irradia nella società e genera il bene. Come di recente ci ha ricordato  Benedetto XVI, nella sua ultima Lettera Enciclica Caritas in veritate: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello al bene comune” ( n. 71).