UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sacerdoti digitali, anche senza volerlo

Il prete e la cultura "virtuale": Avvenire ha raccolto le riflessioni del teologo don Luca Bressan. "Il presbìtero è sempre connesso, ipersollecitato, l’antitesi del raccogliersi in se stesso; e le tecnologie lo mettono in contatto con le diversità in un modo prima inimmaginabile"
28 Aprile 2010
«Più che essere presente nello spazio digitale, il sacerdote è invitato ad abitarlo». E la differenza non è da poco, come spiega don Luca Bressan, docente di teologia pastorale alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e nel Seminario arcivescovile di Milano e autore di un 'viaggio' («Diventare preti nell’era digitale») pubblicato in più puntate dalla Rivista del clero, il mensile di approfondimento pastorale e cultura religiosa dell’Università Cattolica.
  Don Bressan studia da anni le questioni legate alla pastorale e alla parrocchia. E di recente anche quelle sul rapporto fra era digitale e vita ecclesiale. «Per un presbìtero – afferma – essere presente in Rete non può significare costruirsi un’identità esterna e interpretare Internet come un cartellone pubblicitario del proprio 'io'. La Rete è soltanto una delle dimensioni della vita attuale del prete. È giusto che in quanto uomo la viva e quindi la conosca per comprenderne sia le fatiche, sia le opportunità. Ma è necessario che la abiti per quello che è, e non la utilizzi secondo la logica dell’occupazione degli spazi».
  Don Bressan, con l’avvento del digitale il sacerdote viene a trovarsi in una «storia nuova», scrive Benedetto XVI per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2010. Il «virtuale» ha modificato lo stile di essere prete?
  «Preferirei dire che sta modificando la sua esperienza. Sicuramente vengono alla luce tre tratti di trasformazione. Il primo è quello che ha portato il prete a perdere quell’alone di separazione e di sacralità che aveva e quindi lo ha condotto in un sistema di relazioni in cui è allo stesso livello degli altri. Il presbitero, poi, entra in un’era in cui è più difficile essere solo; ne deriva che rientrare in se stessi per sentire la voce di Dio può apparire problematico in quanto si è continuamente sovrastimolati. In terzo luogo, il digitale è per definizione 'cattolico', nel senso che contiene tutto e permette di essere in contatto con le diversità in un modo che in passato era inimmaginabile».
  Non c’è il timore che l’identità presbiterale acquisisca alcune componenti ambigue del mondo virtuale?
  «Penso di sì. E vedo soprattutto due rischi. In primo luogo, quello della provvisorietà. Su Internet posso riplasmarmi secondo l’ambito in cui mi trovo. È il contesto a determinare la mia identità. L’altro rischio è l’onnipotenza: potendomi trasformare di continuo, mi è concesso di ridisegnarmi in toto».
  Come «far trasparire il cuore di consacrato» nel continente digitale?
  «Immergersi in questa dimensione è faticoso e lento: oggi il digitale rischia di essere agnostico, ossia poco interessato alla questione di Dio, soprattutto nel suo volto cristiano. Ma preferisco interpretare questo ritardo come fisiologico: è opportuno entrarci con calma, percorrendo le strade che consentano alla nostra esperienza di non essere impoverita».
  È possibile, per un prete, dare un’anima alla Rete?
  «Certo. L’importante è che la abiti in modo gratuito, interessandosi al contenuto che si vuole trasmettere, a cominciare dal messaggio di salvezza che viene da Cristo, e dimostrando che si possono costruire relazioni senza un tornaconto personale».
  Come favorire nei Seminari un confronto con le sfide digitali?
  «Non serve preoccuparsi soltanto di come e quando usare il cellulare o Internet. È necessario che i futuri preti sappiano leggere la sfida antropologica che i nuovi media contengono. Poiché il mondo digitale sta cambiando il modo di pensarci e vederci uomini, serve aiutare i seminaristi a capire che, per la costruzione la propria identità, non si può dipendere soltanto dalle emozioni e dai pensieri che il mondo digitale trasmette. È urgente comprendere che il digitale non è il tutto della vita. Internet può essere un momento iniziale ma non esaurisce il reale. Mi vengono in mente gli adolescenti che non riescono a staccarsi dal cellulare. Vivono come 'avatar' e hanno paura a consegnarsi all’altro. Invece la nostra fede ci insegna la verità della relazione: Dio si è fatto uomo perché vedessimo 'in diretta' il suo volto, le sue reazioni, le sue emozioni, i suoi dolori, le sue speranze. Educare alla relazione significa ribadire che devo diventare ostaggio dell’altro se voglio che un rapporto sia autentico».
  Le nuove forme di relazione sono soprattutto orizzontali e questo si traduce in una mancanza di padri. Come può un sacerdote essere guida?
  «Proprio il mondo digitale ci fa vedere come un mondo senza padri vada stretto ai giovani. Ecco perché la parabola del figlio prodigo può essere un riferimento oggi. All’inizio il figlio non è in grado di vedere il padre, ma poi lo riconosce per ciò che è veramente. Seguendo questo modello, penso che il compito dei preti sia quello di abitare i nuovi media anche se in prima istanza la loro presenza verrà rigettata».
  Come parlare di trascendente via pc? 
 «Facendo vedere che Internet rimanda ad altro. Il modo migliore che, come cristiani, abbiamo di presentarci in Rete è di mostrare che il computer è solo una parvenza dell’esperienza, ma per giungere al tutto occorre venire e vedere».
  Quali vie può imboccare il sacerdote per accogliere le prospettive «pastoralmente sconfinate» di questo nuovo contesto?
  «Prima di tutto annunciando chi siamo. Ma, al tempo stesso, mettendo in evidenza che i nostri tesori vanno cercati e custoditi. Non è giusto portare i nostri tesori là dove non è possibile accogliere l’uomo nella sua interezza».
  Nella cultura digitale il cristianesimo può essere protagonista?
  «Sicuramente. I segni sono al centro di Internet e la tradizione cristiana ci trasmette una radicata capacità di avvalersi dei simboli per annunciare Dio e il senso più profondo dell’esistenza. Probabilmente san Paolo si sarebbe trovato a suo agio davanti a questa sfida perché conosceva bene le regole dei linguaggi e aveva anche il coraggio di ripartire quando le cose non funzionavano».
 
intervista di Giacomo Gambassi
(da Avvenire del 28 aprile 2010, pag. 23)

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