Accade, a volte, che letteratura e cinema congiurino per offrirci un’affascinante e poetica attenzione al mondo dell’adolescenza. E proprio questo, quando me ne parlarono per la prima volta, mi affascinò subito dell’ultimo progetto realizzato da Martin Scorsese.
Il libro The Invention of Hugo Cabret di Brian Selznick, e il film (in un fantastico 3D) Hugo Cabret che Scorsese ha diretto così magistralmente, sono innanzitutto un omaggio sincero e appassionato all’età dell’adolescenza. Uno dei luoghi comuni più radicati della nostra epoca è che i più giovani stiano crescendo come orfani, senza la guida e il carisma di adulti autorevoli. È uno dei tasti dolenti che anche il film focalizza in modo molto efficace. Entrambi i giovani protagonisti sono orfani e sembrano mossi proprio dal desiderio commovente di recuperare un momento di comunicazione con i genitori scomparsi. Ma la vera magia del libro e del film è tutta nella capacità inaspettata di rivoltare la storia: saranno infatti i due adolescenti alla fine a restituire agli adulti, distratti e resi cinici dalla vita, il sorriso di un sentimento autentico e pieno di speranza per il futuro.
Non è poco. Credo che sia proprio questo il motivo che sta spingendo così tante persone a vedere Hugo Cabret. Al centro di analisi sociologiche che lasciano il tempo che trovano, i giovani sono troppo spesso sottovalutati. Il film di Scorsese invece ci manda un messaggio completamente diverso, fatto di rispetto per il valore delle giovani generazioni e, soprattutto, di speranza. Il nostro destino e quello del nostro mondo, anche e soprattutto da un punto di vista etico, sono saldamente nelle mani dei nostri figli, dice Scorsese. Ricordarlo fa bene agli adulti, che troppo spesso lo dimenticano, e agli stessi giovani, che qualche volta cadono nella trappola del pessimismo e della disperazione. C’è però anche un’altra cosa che mi ha molto colpito del film di Scorsese. Si tratta della riscoperta del silenzio.
Viviamo in un’epoca che è contrassegnata purtroppo da un overload di informazioni. Web, radio e televisione insieme con i social network più famosi producono ogni giorno una quantità impressionante di parole. Le immagini, in qualche caso, ne risultano addirittura penalizzate. Il cinema invece, quest’anno, ha decisamente cambiato rotta. Hugo Cabret, che noi di Rai Cinema siamo fieri di distribuire in Italia, è dedicato al padre del cinema fantastico di tutti i tempi, Georges Méliès. Il suo cinema era muto, ovviamente. Era il grande cinema dell’inizio del secolo scorso. Mentre i fratelli Lumière si limitavano a riprendere brandelli di vita reale, Méliès costruì il primo studio di posa della storia del cinema. I suoi film erano pieni di effetti speciali. Anzi, secondo alcuni storici, è proprio l’arte di Méliès che fa esclamare: «Il cinema è un effetto speciale». Il suoi film erano così: solo grandi immagini senza il peso delle parole. I membri dell’Academy hanno voluto attribuire ben undici nomination al film di Scorsese. Il suo concorrente ai prossimi Oscar, con dieci nomination, è Michel Hazanavicius, regista di The Artist,
un film sorprendente anche perché è completamente muto, come se fosse stato girato un secolo fa. Proprio come i film di allora, quindi dei tempi descritti in modo così affascinante ed emozionante da Hugo Cabret.
Impressiona veramente questa riscoperta del silenzio, anche da parte della rumorosa Hollywood, come valore fondante dei sentimenti più autentici. E impressiona altrettanto quella contenuta in un film molto diverso, 'Cesare deve morire', diretto dai fratelli Taviani e che vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino. La splendida orazione funebre scritta da Shakespeare per Antonio e recitata sulla salma di Cesare da uno dei detenuti del braccio di massima sicurezza del Carcere di Rebibbia, nel film dei Taviani rimbalza sulle pareti spoglie della prigione. Sembra la metafora della incomunicabilità che in modo paradossale i media moderni trasmettono a una umanità sempre più sgomenta e confusa.
Ce lo ha ricordato recentemente il Papa, nel suo Messaggio per la 46ª Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali. «Si tratta del rapporto tra silenzio e parola: due momenti della comunicazione che devono equilibrarsi, succedersi e integrarsi per ottenere un autentico dialogo e una profonda vicinanza tra le persone. Quando parola e silenzio – ha detto Benedetto XVI – si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora, o perché provoca un certo stordimento, o perché, al contrario, crea un clima di freddezza; quando, invece, si integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato». È interessante che questa lezione di comunicazione del Papa trovi una sintonia così profonda con messaggi che provengono da Hollywood e dal cinema europeo. Si tratta un’occasione in più per riflettere sul nostro lavoro di comunicatori. Abbiamo una responsabilità enorme nei confronti del nostro pubblico. Il silenzio può aiutarci a riconquistare veramente «valore e significato».
Paolo Del Brocco
Amministratore delegato Rai Cinema