«Ciò che è veramente grande passa spesso inosservato e il quieto silenzio si rivela più fecondo del frenetico agitarsi che caratterizza le nostre città... C’è un attivismo che ci rende incapaci di fermarci, di stare tranquilli, di ascoltare...»: nel discorso del Papa in Piazza di Spagna l’8 dicembre c’è questa frase d’importanza cruciale anche da un punto di vista laico. Il frastuono dell’informazione, che ci giunge da infiniti mezzi, stampa, tv, radio, web, comunica con noi frattalizzando, ci mostra gl’interminabili dettagli eccitanti delle notizie spicciole, ma ci fa perdere di vista l’insieme, gli eventi che durano, il loro senso, la loro grandezza, il loro influsso sulla vita nostra e dei nostri figli.
L’informazione quotidiana ci dà la cronaca, non la storia. Potremmo pensare che la storia sta alla cronaca come la carta geografica di uno Stato sta alle mappe delle regioni, nasce cioè da una sommazione, che lascia perdere i particolari trascurabili. Ma non è così. I particolari che nella carta generale risultano rilevanti non c’erano nelle mappe locali.
Siamo a Natale, e la nascita che questo giorno ricorda non tutti gli storici dell’epoca l’annotarono. Eppure faceva ripartire la Storia dall’anno uno, fondava la nuova epoca dell’umanità. Chi lavora a dare informazioni, e noi che le commentiamo, stiamo al nostro mondo e alla nostra epoca come formiche che camminano sul tronco di un albero: vediamo qualche centimetro di corteccia, non vediamo l’albero, non sappiamo cosa sia, né tantomeno abbiamo un’idea della foresta che cresce intorno. Abbiamo notizie, ma non abbiamo conoscenza. Vediamo l’attimo, non vediamo la durata, ciò che c’era prima e ciò che verrà dopo.
La guerra all’Iraq la vedemmo nell’attimo esatto in cui scoppiava: io ho un figlio dall’altra parte del mondo, a Los Angeles, da Los Angeles mi chiamò al telefono urlando: «Comincia!», apro il televisore e vedo esplodere Baghdad. Sorpresa: i missili che arrivavano avevano una scia non rossa, ma giallo-verde.
Sapevamo che l’America doveva vendicarsi, e distruggere le armi di distruzione di massa del nemico. Dopo anni e anni, ci dicono che forse la giustizia era una vendetta, si poteva scegliere un’altra strada, e le armi di distruzione di massa non c’erano.
Le Due Torri bruciano, un direttore di giornale mi allerta, guardo Rai1 che mostra la Cnn senza interruzione, sotto le immagini scorre una scritta che per due ore dice (traduco): «Attacco all’America», e dopo due ore cambia: «L’America in guerra». Ma chi era l’aggressore? Ci vollero giorni per saperlo. Ancor oggi, non sappiamo bene cosa sia al-Qaeda.
Godemmo all’esplosione delle Primavere Arabe, e nel lungo dubbio del mondo: al contatto dell’islam con noi, l’islam diventerà più democratico o più integralista?, ci sembrò prevalere la prima risposta: più democratico. Adesso vediamo l’Egitto di nuovo in rivolta, e pensiamo il contrario.
La cronaca ci ubriaca, e nei fumi dell’ebbrezza non vediamo più la storia. Questo è vero anche per le piccole vicende della nostra piccola vita, dico di noi che amiamo le parole, i giornali, i libri. Per quelli che, come me, fanno libri, hanno (a torto) una qualche importanza i premi Nobel: un autore vince il Nobel, e tutta l’informazione rimbomba, pare che tu abbia perso la vita se non l’hai letto prima, e non possa vivere un altro giorno senza leggerlo. Con gli anni scopri che è un inganno. Puoi tranquillamente vivere senza leggere il Nobel di quest’anno, il cinese Mo Yan, scrittore e uomo mediocre, o il Nobel francese di qualche anno fa, Le Clezio, narratore vaniloquente, costruttore di intrecci caotici. Tra il Nobel Quasimodo e il non-Nobel Ungaretti quello dovrebb’essere eterno e questo morto. È vero il contrario.
I mezzi d’informazione non hanno lo scopo di fare l’uomo, ma di soddisfarlo, perché l’uomo è un cliente e l’informazione è una merce. Non deve dire la verità, ma andar venduta. Meno male che qualcuno non la pensa così, e così non fa.