UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Vale di più un buon libro che un Tavor

La "biblioterapia" costituisce un prezioso strumento d’intervento per tutta quella 'zona grigia' che va dalla crisi esistenziale o familiare alla normale tristezza o alle crisi delle 'età di passaggio', dallo smarrimento d’identità alla caduta di ruolo...
4 Ottobre 2010
Secondo una radicata tradizione, la letteratura, soprattutto moderna, ha a che fare con il male di vivere e in qualche modo, nutrendolo, se ne nutre a sua volta. Certa letteratura può condurre alla perdita di sé, come suggeriscono personaggi letterari quali la Francesca di Inferno V, la Bovary di Flaubert o, più sottilmente, don Chisciotte. L’analisi non è in sé errata, ma forse pecca di semplificazione, se è vero che in modo via via più condiviso la letteratura, anche moderna, può essere adottata per rieducare, in qualche modo per curare (naturalmente a fianco di terapie tradizionali) chi soffre di disturbi psichici. Ce lo documenta un libro se non altro curioso, «Iniziazione alla libroterapia» (Edizioni Mediterranee), che non è del resto il primo sull’argomento. L’autrice, Manuela Racci, si preoccupa principalmente di enumerare citazioni ed esempi per dimostrare il suo assunto, cioè la possibile utilità della parola letteraria, specie quella dei classici, a riarmonizzare il lettore con se stesso, a metterlo in contatto con la sua struttura profonda, ad accompagnarlo nel suo percorso di crescita. A dare una conferma e un crisma di validità al piano di lavoro proposto è l’introduzione del dottor Andrea Bolognesi, medico omeopata specialista in psichiatria, il quale racconta le sue somministrazioni letterarie: «La biblioterapia (...) costituisce un prezioso strumento d’intervento per tutta quella 'zona grigia' che va dalla crisi esistenziale o familiare alla normale tristezza o alle crisi delle 'età di passaggio', dallo smarrimento d’identità alla caduta di ruolo (...). È in tali casi che io prescrivo uno o più libri nella ricetta». Più avanti la Racci cita l’esperienza di un altro medico, il dottor Cannavò della clinica psichiatrica della facoltà di Medicina e chirurgia di Catania, con il suo elenco di libri consigliati: tra questi il Tolstoj di «Resurrezione», le schegge de «La felicità dell’infelice» di Papini, Hermann Hesse, ma anche i «Karamazov» di Dostoevskij. Credo che la 'libroterapia' vada presa con un po’ di buon senso e che vadano evitate infatuazioni, così come quel tanto di esoterico che l’autrice qua e là lascia trapelare. Tuttavia qualche riflessione se ne può trarre, anche da parte chi si occupa per mestiere della parola scritta. Nel senso che una simile proposta rimette davanti agli occhi la questione della lettura come esperienza forte, plasmatrice, formante. Ovviamente la parola letteraria, in modo diverso dalle scritture ispirate, esprime anche il negativo, il tormento, l’oscuro del mondo e dell’esistenza. Eppure, proprio nel far ciò, può diventare una voce fraterna, magari mostrando più sottile e umbratile di quanto non si possa ritenere il confine tra salute e malattia (tema, questo, caro a Mario Luzi); può ampliare categorie rigide, scavare. Ma quanti libri stampati nei nostri anni sarebbero in grado di stimolare e reggere un tipo di lettura così forte? Voglio dire, forse alzare la posta in gioco, anche attraverso la proposta del leggere per curarsi, può aiutarci a discriminare, a rilanciare un’idea di letteratura non contingenziale o furba, non facilmente 'deperibile'.