UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Videogiocando s'impara
a diventare mamme digitali

Le mamme sono tornate a lezione. La materia è inconsueta ma tutt’altro che inutile: videogiochi. A invitarle, in partnership, il Servizio di Psicologia dell’apprendimento e dell’educazione (Spaee) dell’Università Cattolica di Milano e una grande casa di produzione, la giapponese Nintendo.
2 Dicembre 2011
Le mamme sono tornate a lezione. La materia è inconsueta ma tutt’altro che inutile: videogiochi. A invitarle, in partnership, il Servizio di Psicologia dell’apprendimento e dell’educazione (Spaee) dell’Università Cattolica di Milano e una grande casa di produzione, la giapponese Nintendo che con SuperMario – l’omino baffuto che non si ferma mai – ha toccato il vertice della popolarità, e non solo tra i più piccoli.

In questi anni l’industria del videogioco ha proposto novità a ciclo continuo, fino a cambiare gli stessi paradigmi di riferimento – con la stessa Nintendo – attraverso console di gioco pensate appositamente per un’utenza familiare (è il caso della Wii e delle sue concorrenti prodotte da Microsoft e Sony, in cui l’astruso joystick è stato sostituito da un intuitivo telecomando) e quella del Ds, interfaccia portatile che ha reinventato il concetto di touch screen, lo schermo da toccare con cui si interagisce in maniera intuitiva.
Sono state scelte commerciali, sì, ma anche culturali, perché hanno dato orizzonti nuovi al mondo dei videogiochi. Non più riservato ad appassionati ultraspecialisti ma aperto alla dimensione della famiglia che, giocando insieme, trascorre insieme tempo che può rivelarsi inaspettatamente prezioso per le relazioni e gli affetti.
È anche vero, tuttavia, che oggi il mondo dei videogiochi, e più ampiamente quello dell’interazione con i mezzi e i codici dell’era digitale, fa i conti con un divario generazionale così netto da far nascere il concetto di 'nativi digitali': i bambini che, nati tra le tecnologie, hanno infinitamente più confidenza con quel mondo di quanto ne siano capaci gli adulti.
A questa consapevolezza obbedisce la proposta del colosso nipponico e dell’ateneo milanese: fornire un supporto anzitutto educativo, dove le 'educande' sono proprio quelle madri (e quei papà, perché no?) che guardano con inquietudine e un po’ di sgomento alle misteriose acrobazie tecnologiche dei loro ragazzi. L’aiuto, in questo caso, sta nell’invito a superare le paure avvicinandosi al mezzo e sperimentandolo. Apprendere le procedure d’uso della console aiuta a superare quel senso di impotenza che è figlio della scarsa dimestichezza pratica.
Scansato l’ostacolo della tecnologia, si passa così al linguaggio, ovvero al piano di 'competenza' che è proprio di un adulto: infatti dove il bambino è più abile e istintivo, il genitore può intervenire con la propria maggiore capacità di leggere il mondo e spiegarlo. E, superata la diffidenza istintiva verso la manualità, si apre la strada per condividere – ciascuno secondo la propria età e il proprio ruolo – le passioni dei figli. Al tempo stesso, è più facile fare propri i criteri educativi che aiutano a valutare quali giochi – e quali frequentazioni sul Web – sono adatti o meno all’età e al carattere dei 'nativi digitali' di casa propria.
Questa prospettiva anima l’iniziativa milanese (cfr. il primo allegato), che dopo l’esordio del 1° dicembre sarà replicata martedì 6: un pomeriggio guidato da psicologi e tecnologi che verte sull’uso delle console portatili.
L’aspetto incoraggiante di iniziative come questa è che cercano di individuare insieme ai genitori la miglior soluzione possibile al dilemma del rapporto tra nativi e immigrati digitali: ovvero indurre questi ultimi – noi adulti affaticati dall’impatto col nuovo – ad avvicinarsi oltre la soglia di prudente (o incosciente) distacco con cui osserviamo l’entusiasmo dei giovani giocatori.
Poiché si tratta di territori in cui non esistono frontiere consolidate, conviene affiancare ragazzi e bambini nell’esplorazione, anziché lasciarli inoltrare in perfetta solitudine, come accade troppo spesso. È la declinazione nuova del 'rischio educativo' dei genitori nell’era digitale: rischio che merita più che mai di essere corso in prima persona.